Uno studio del GSE rivela che già nel 2010 l’Italia era in grado di aumentare del settanta per cento il calore prodotto in cogenerazione.
Comincia finalmente ad essere di moda la cogenerazione, cioè la produzione contemporanea (ed efficiente) di energia elettrica e di calore utile. Essa consente risparmi di combustibile dell’ordine del 20-30 per cento: i benefici, quanto alla riduzione di emissioni di anidride carbonica e sostanze inquinanti, si possono facilmente immaginare.
Per questa ragione, direttive, decreti, delibere ecc. cercano di diffonderla e di svilupparla. Ma c’è davvero un potenziale di sviluppo per la cogenerazione?
C’è, ed è notevole, dicono i numeri. Nel 2010, i principali settori di attività economica italiani erano già in grado di “ospitare” complessivamente fino a settemila megawatt elettrici (MWe) di nuova capacità di cogenerazione.
Se si tiene conto che in Italia gli impianti di cogenerazione ad alto rendimento si aggirano attualmente sui diecimila MWe complessivi, si scopre che il potenziale nazionale di cogenerazione è sfruttato soltanto per la metà o poco più.
Svilupparlo completamente significherebbe far aumentare il risparmio annuo di combustibile dagli attuali quattro milioni (o poco più ) di tonnellate equivalenti di petrolio fino a qualcosa come sette milioni.
Un obiettivo ambizioso, senza dubbio: ma in questa nostra epoca che ha caro il risparmio energetico e teme le emissioni inquinanti ed i gas serra, varrebbe certo la pena tentare di realizzarlo almeno in parte. Come?
Costruendo nuovi impianti di cogenerazione ad alto rendimento, ma anche intervenendo sugli impianti già esistenti: dei diecimila MWe attualmente in servizio, circa il 7-8 per cento risulta costituito da macchinario che nel 2010 ha raggiunto, la fine della propria vita utile, ed ha probabilmente bisogno, almeno in parte, di essere sostituito o ammodernato.
Le tecnologie disponibili? Assai varie e adatte a tutte le esigenze.
Qualche esempio: ristoranti, esercizi commerciali, industrie alimentari fanno ricorso spesso a piccole turbine a gas (fino a circa 0,2 MWe), oppure, quando occorre una potenza più elevata (tra 0,2 e 2 MWe circa), a motori a combustione interna.
Nell’industria ceramica e in quella cartaria troviamo per lo più turbine a gas, con taglie tipiche comprese tra 1 e 10 MWe: ma nelle cartiere non sono rare le turbine a vapore, pure tra 1 e 10 MWe.
La sanità e (con qualche eccezione) il riscaldamento urbano sembrano preferire i motori a combustione interna, almeno fino a 4 MWe. Infine, nella raffinazione del petrolio e nella petrolchimica, ma anche nell’industria cartaria di maggiori dimensioni, fanno la loro comparsa i cicli combinati gas-vapore, a partire dai 10-20 MWe fino, in qualche caso, alle centinaia di MWe.
La sanità e (con qualche eccezione) il riscaldamento urbano sembrano preferire i motori a combustione interna, almeno fino a 4 MWe. Infine, nella raffinazione del petrolio e nella petrolchimica, ma anche nell’industria cartaria di maggiori dimensioni, fanno la loro comparsa i cicli combinati gas-vapore, a partire dai 10-20 MWe fino, in qualche caso, alle centinaia di MWe.
In un rapporto risalente ad alcuni anni or sono il GSE ha analizzato il “potenziale di sviluppo della cogenerazione ad alto rendimento”.
L’analisi abbraccia numerose attività economiche nelle quali la cogenerazione è (più o meno ampiamente) praticata: l’industria alimentare e quella cartaria, e poi la chimica, la raffinazione del petrolio e le coltivazioni in serra; non potevano mancare, infine, due settori civili di particolare importanza: la sanità ed il riscaldamento urbano. Altri settori, pure importanti, non sono stati inclusi per mancanza di informazioni sufficienti: è il caso, ad esempio, dell’industria ceramica.
Per ciascun settore vengono distinti due possibili “filoni” di intervento: la costruzione di nuovi impianti e l’ammodernamento di impianti esistenti.
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